«Chi gioca solo» (non vince)

di Saverio Pipitone [pubblicato il 25/5/2022 in www.labottegadelbarbieri.org]

Domenica 5 marzo 1967, a Partanna, nella sala del cinema Nuovo, si preparava per il giorno dopo un grande corteo di protesta e l’attivista-sociologo Danilo Dolci esortava la platea a partecipare in massa «perché se non siamo tutti quanti insieme non riusciamo a cambiare il mondo».

Così l’indomani mattina partì la marcia “Per la Sicilia occidentale e per un nuovo mondo” con un lungo cammino a tappe, 200 km per 6 giorni, a piedi o su camioncini, carretti, vespe e api, tra campagne e paesi: Castelvetrano, Menfi, Santa Margherita Belice, Roccamena, Partinico e Palermo, con un raduno conclusivo in Piazza della Kalsa, dove dalla tribuna Danilo Dolci parlò della necessità che la Commissione parlamentare d’inchiesta sui legami mafia-politica rendesse pubblici gli atti.

Lui stesso, il 22 settembre 1965, aveva consegnato alla Commissione e presentato in conferenza stampa testimonianze firmate, dirette e oculari, che raccolse assieme allo scrittore Franco Alasia nelle aree palermitane e trapanesi in cui operava il loro “Centro studi e iniziative”, vagliando i pettegolezzi o voci incontrollate dagli avvenimenti certi e visibili, circa le collusioni di politici e mafiosi.

Diverse persone riferivano di pezzi da novanta della mafia che erano ai comizi elettorali di taluni democristiani fra strette di mano, baci, abbracci e amichevoli conversazioni, o dei loro galoppini che per carpire voti diffondevano per strada e di casa in casa facsimile, pasta, farina, buoni benzina, scarpe per bambini, qualche mille lire e promesse di posto fisso nelle ferrovie, poste e banche. «Andavano nelle case anche di notte, per intimorire di più» e dicevano «vota questo, per te è lo stesso».

Con la menzionata documentazione, unitamente a resoconti di riunioni o incontri, interviste e appunti, Danilo Dolci scrisse il libro “Chi gioca solo”, edito da Einaudi nel 1966 (328 pagine).

Ascoltando contadini, pescatori, operai, sindacalisti, professionisti, funzionari, studenti, religiosi, notabili e altri, realizzò una diagnosi dal vivo «nel tentativo – spiega nella premessa – di chiarire le difficoltà alla vita di gruppo e all’organizzazione democratica in Palermo città e nell’entroterra, con uno strumento primitivo quale il far esprimere e pensare: sono sempre più convinto che nessuno studio dal di fuori possa surrogarsi al valore della presa di coscienza di una popolazione… Sono rimasto colpito, e talvolta ammirato, dal desiderio di verità in chi ho incontrato, nei veri autori cioè di questo libro: dicendo della propria situazione e delle proprie difficoltà, penso abbiano detto qualcosa che interessa ben oltre questa, relativamente piccola, zona».

Danilo Dolci domandava perché «Chi gioca solo non perde mai» (proverbio siciliano): «Una delle risposte più illuminanti – scrive nel libro – forse la più illuminante è condensata nel significato locale della parola “associazione”, che significa molto molto spesso “associazione a delinquere”: tutti coloro non vogliono dunque correre rischi, non mirano certo volentieri ad associarsi».

Nel libro fa i nomi dei politici compromessi e precisa che «in alcun modo voglio loro male: ritengo semplicemente che la loro azione sia negativamente esemplare nel ritardare, nell’impedire lo sviluppo della zona».

Su uno in particolare – il primo eletto siculo occidentale – riporta dopo attente verifiche le esternazioni dei suoi compaesani. Per esempio: «se nei primi tempi, nell’immediato dopoguerra, non fosse stato sostenuto e avviato dalla mafia, non avrebbe potuto diventare deputato»; «non era e non è tanto stoffa di mafioso in sé quanto strumento utile ai suoi grandi elettori mafiosi, e capace di servirsene»; «sapeva benissimo chi erano questi, perché li conosceva da sempre, sapeva tutto il loro modo di agire, la loro influenza mafiosa, in quanto le loro soperchierie prima nell’ambiente della campagna e poi nel paese erano conosciute a tutti, e se ne è servito: attraverso loro ha avuto tutti i voti che ha avuto; ha approfittato di questa gente per andare su, e ognuno ha cercato di approfittare della sua posizione».

Erano democristiani spregiudicati e intoccabili. Dolci e Alasia furono querelati e condannati per diffamazione. Alla memoria storica rimane il libro con tutti i nomi: è consultabile in biblioteca poiché fuori catalogo, ma bisognerebbe ripubblicarlo.

Intanto, alla marcia, in migliaia chiedevano pace, lavoro e giustizia. Fiancheggiati da tanti intellettuali fra cui Carlo Levi (scrittore), Lorenzo Barbera (sociologo), Michele Pantaleone (giornalista), Lucio Lombardo Radice (pedagogista), Antonino Uccello (antropologo), Bruno Zevi (urbanista), Ernesto Treccani (pittore), Giacomo Baragli (scultore), Vo Van Ai (poeta vietnamita).

C’era anche Peppino Impastato che fece un resoconto delle giornate su “L’Idea”, piccolo periodico locale di denuncia che aveva cofondato: «È una grande manifestazione popolare il cui significato si individua in due punti essenziali: condanna aperta della attuale classe dirigente per l’inefficienza ormai lungamente dimostrata nel risolvere i problemi più urgenti e vitali dell’isola; ferma volontà di rompere con un mondo, con una maniera di condurre la cosa pubblica, tutte cose che puzzano di marcio».

All’epoca diciannovenne, Peppino Impastato era un militante appassionato, disobbediente civile, leggeva Sartre, Camus, Pasolini, Marx, Gramsci, Lenin e Dostoevskij. Suo fratello Giovanni (nel libro intervista “Resistere a Mafiopoli”) racconta che: «Ammirava molto la gente comuneperché diceva che da ciascuno di loro potevi ottenere qualcosa di importante, un piccolissimo pezzo di verità». Conosceva le gesta di Danilo Dolci e lo apprezzava «per la creatività e lo spirito di innovazione»: dallo sciopero alla rovescia del 2 febbraio 1956 a Partinico con braccianti disoccupati che, per lavorare, ripristinarono senza permesso una strada pubblica dissestata; alla Radio Sicilia Libera che durò solo 27 ore, in quanto chiusa dall’irruzione delle forze dell’ordine – per violazione del monopolio statale sulla comunicazione – dopo che il 25 marzo 1970 trasmise in clandestinità dei ripetuti SOS per aiutare i terremotati delle valli Belice, Jato e Carboi, abbandonati dalle autorità tra sperperi e ruberie. Nel 1976, con l’etere liberalizzato, Peppino Impastato aprì Radio Aut, nel proseguimento di un percorso aggregativo e pedagogico per democratizzare le coscienze, entrando nelle case con messaggi ironici e provocatori. «La radio era diventata una piccola comune, un via vai continuo… erano riusciti a far ridere tutto il paese alle spalle dei boss e dei picciotti».

Con la mobilitazione, la cooperazione e la controinformazione si voleva tramutare una situazione che – come espone Dolci nel libro – per il sentore comune era pressappoco così: «si sa, sono tanti e tali gli scandali o i potenziali scandali oggi in Italia che se si cercasse di guarirli tutti subito, allo Stato, a questo Stato, non potrebbe venirne che un infarto… che Giustizia è quella che si ferma di fronte alla potenza e alla ufficialità di certe persone e di certi gruppi? È ovvio che non può alcuno Stato, non può alcuno al mondo ottenere fiducia e partecipazione dai cittadini finché, neghittosamente di parte, si arrocca a coprire il falso e la prepotenza parassitaria… finché la maggioranza delle persone si comporta come se questi problemi non la riguardassero affatto; finché cioè, ad ogni livello di responsabilità, non si sarà disposti a rischiare per la verità, osando opporsi in modo organizzato all’ingiustizia e alla violenza organizzata ovunque essa sia: il corpo sociale non potrà che rimanere sostanzialmente fermo, infetto».