Nella contea di Vastmanland in Svezia il chimico Georg Brandt frugava tra gli scarti minerari alla ricerca di insoliti colori luminosi, per poi analizzarli nel laboratorio del Consiglio delle Miniere a Stoccolma. Era il 1730 quando ipotizzò che il blu della smaltite poteva contenere un nuovo elemento e, dopo 7 anni di studi, scoprì che si trattava di cobalto (Co – 27 della tavola periodica).
Nel nostro tempo questo minerale è usato per la fabbricazione
di tecnologia ed elettronica e lo si trova in grandi quantità nella Repubblica
Democratica del Congo, dove negli ultimi anni degli ingenti investimenti sono
stati fatti dalle imprese cinesi: nel 2016 la China Molybdenum
del miliardario Yong Yu ha acquistato dall’americana Freeport-McMoRan per 2,65
miliardi di dollari il giacimento di Tenke Fungurume che produce 1/4 del
cobalto nazionale; nel 2018 la Gem
Co ha stipulato un accordo con la svizzera Glencore per comprare
52.800 tonnellate di cobalto congolese fino al 2020.
Un’industria in Cina che lo richiede per costruire veicoli
elettrici, dalle auto agli autobus, è la Build Your Dreams (BYD), fondata dall’imprenditore Wang
Chuan-Fu che, in collaborazione con il cugino Lu Xiangyang (ex dirigente
Bank of China), scommise su un progetto di elettrificazione della mobilità
futura e ai dubbiosi investitori che chiedevano dove avrebbe preso il cobalto
per le batterie, rispondeva: «Andremo a
cercarlo in Congo, sono nostri amici».
Il minerale serve pure ad altre multinazionali tra cui
Volkswagen e BMW per le automobili ibride, come ad Apple e Samsung per
l’elettronica. Questi colossi ne domandano sempre di più e nel 2017 quello
congolese ha coperto il 67% della richiesta mondiale, determinandosi un’impennata
del prezzo che da gennaio 2016
a luglio 2018 è triplicato passando da 10 a 32 dollari la libbra, con
enormi guadagni che in Congo vanno a vantaggio dei governanti in combutta a
corporation straniere e a svantaggio di almeno 100.000 lavoratori, di cui 40.000
bambini – dato Unicef del 2014 – che lo estraggono a mano o con strumenti
rudimentali per 12 ore al giorno alla misera paga di 2 dollari. Dal 1994 l’accaparramento
minerario è una delle cause dei conflitti fra l’esercito statale e un centinaio
di bande di ribelli armati che in un ventennio hanno devastato il territorio,
provocando una drammatica emergenza umanitaria: 2,2 milioni di bambini
malnutriti, 13,1 milioni di persone bisognose di aiuti per sopravvivere e oltre
4 milioni di civili sfollati.
Il giacimento di cobalto più capiente del Congo con 300.000
tonnellate per una produzione quarantennale è quello di Mutoshi a
Kolwezi nella provincia di Lualaba e a settembre 2019 si
concluderanno i lavori di ampliamento per estrarne potenzialmente 20.000 tonnellate
annue. Il gestore che ha in concessione la miniera è la Chemaf del gruppo Shalina
Resources con base a Dubai e di proprietà di Shiraz Virji, un imprenditore
indiano che dagli anni Ottanta fa affari in Africa, dapprima come commerciante
di spezie e poi nei settori dei farmaci e dei minerali.
Il cobalto della Chemaf è venduto alla multinazionale
di trading Trafigura Group di Ginevra (Svizzera): fondata nel 1993 dal mercante
minerario francese Claude Dauphin (deceduto nel 2015) è di proprietà dei
circa 600 dirigenti dipendenti fra cui il CEO Jeremy Weir, che proviene da una
pluriennale esperienza di responsabile commerciale e marketing per le materie
prime nel gruppo finanziario Rothschild dell’omonima famiglia. Uno dei maggiori
clienti che acquista il cobalto da Trafigura Group è l’azienda belga Umicore, collocandolo
nel mercato delle batterie per tecnologia.
A eccezione di Chemaf, Shalina Resources e Trafigura Group,
tutte le altre aziende menzionate sono quotate in Borsa e un azionista o
investitore che hanno in comune è Vanguard Group, il più grande gruppo mondiale
del risparmio gestito, che prende il nome dalla vincente nave inglese Vanguard
del contrammiraglio Nelson nella battaglia del Nilo del 1798 contro i
francesi. Con quartier generale in Pennsylvania, è stato fondato nel 1974 dal
magnate della finanza John Bogle, per gli amici Jack, deceduto a gennaio 2019. Discendeva
da ricche famiglie americane di origine scozzese: il bisnonno materno Philander
Banister Armstrong era all’inizio del 1900 un manager alla presidenza della
compagnia assicurativa Excelsior Fire che all’epoca fu messa in amministrazione
controllata per l’emissione di fatture false per 137.500 dollari; il nonno
paterno William Yates Bogle Senior era un impresario dell’industria conserviera
e sanitaria, fondando la
American Brick Corporation e la Sanitary Can Company,
ma entrambe ebbero problemi finanziari. John Bogle era nato nel 1929, l’anno
della “grande depressione” che colpì duramente rendite ed eredità familiari,
portando il padre William Yates Bogle Junior all’alcolismo e al divorzio dalla
moglie Josephine Lorraine Hipkins. Si laureò nel 1951 in Economia, con una
tesi sui fondi comuni d’investimento, nella prestigiosa Università di Princeton
che era molto selettiva ammettendo solo componenti dell’alta borghesia per
creare un’élite studentesca con la garanzia di un futuro privilegiato.
Qualche anno fa Warren Buffet – oracolo e asso degli
investimenti a Wall Street – affermò: «Se
una statua deve essere costruita per onorare colui che ha dato il massimo agli
investitori americani, è di John Bogle. Per me e per milioni di investitori è
un eroe». In un quarantennio ha introdotto, diffuso e consolidato nel
settore globale del risparmio gestito dei prodotti semplici, efficaci e a basso
costo che hanno arricchito milioni di investitori con la movimentazione di una
abnorme massa di denaro.
Vanguard Group gestisce oggi circa 5.000 miliardi di dollari
e le proiezioni dell’agenzia di stampa economica Bloomberg stimano che
raggiungerà i 10.000 miliardi entro il 2023, arrivando al traguardo prima del
principale competitor e fondo di private equity newyorkese BlackRock che
attualmente è a quota 6.000 miliardi, in una “gara” per il controllo del
mercato finanziario combattuta a colpi di taglio dei costi mediante l’utilizzo
di robo-advisor con sistemi di intelligenza artificiale che processano dati ed
elaborano strategie di investimento, in sostituzione del lavoro umano, allo
scopo di offrire prodotti sempre più low cost. La proprietà di Vanguard Group è degli stessi fondi
che gestisce, molti dei quali More
Risk More Reward (rischiosi e remunerativi), su cui i piccoli
risparmiatori privati, operatori finanziari e investitori istituzionali
investono divenendo una sorta di azionisti che partecipano ai profitti.
Se come narra l’aneddoto africano, chiunque – compresi gazzella e leone – sa che nel continente nero quando sorge il sole dovrà cominciare a correre per sopravvivere, nell’opulento Occidente ogni consumista sa che quando si sveglia dovrà andare di corsa ad acquistare l’ultimo esemplare di smartphone, buttando via il vecchio e ancora funzionante modello di appena un anno fa, mettersi a bordo di una moderna auto elettrica atteggiandosi da ecologista (ma di fatto usata soltanto per entrare nella ZTL dei centri storici nel proseguimento dello shopping); poi fare bancomat e richiedere l’estratto conto bancario per controllare i punti percentuali di guadagno sui risparmi investiti nei fondi di grossi gruppi finanziari per speculare nella produzione e distribuzione di quei superflui beni di consumo che nei Paesi ricchi sono indispensabili allo stile di vita, mentre in quelli poveri sono sinonimo di sfruttamento umano e devastazione ecologica.
Se come narra l’aneddoto africano, chiunque – compresi gazzella e leone – sa che nel continente nero quando sorge il sole dovrà cominciare a correre per sopravvivere, nell’opulento Occidente ogni consumista sa che quando si sveglia dovrà andare di corsa ad acquistare l’ultimo esemplare di smartphone, buttando via il vecchio e ancora funzionante modello di appena un anno fa, mettersi a bordo di una moderna auto elettrica atteggiandosi da ecologista (ma di fatto usata soltanto per entrare nella ZTL dei centri storici nel proseguimento dello shopping); poi fare bancomat e richiedere l’estratto conto bancario per controllare i punti percentuali di guadagno sui risparmi investiti nei fondi di grossi gruppi finanziari per speculare nella produzione e distribuzione di quei superflui beni di consumo che nei Paesi ricchi sono indispensabili allo stile di vita, mentre in quelli poveri sono sinonimo di sfruttamento umano e devastazione ecologica.