di Saverio Pipitone
[pubblicato il 30/11/2018 in www.labottegadelbarbieri.org]
«Tranquilli! Tranquilli! Son sempre io, gran gallo, l’unico
paninaro professionista, troppo giusto!». Molti ricorderanno le battute del
comico Enzo Braschi nello show televisivo Drive In su Italia 1
o nel film Italian Fast Food degli anni Ottanta.
I paninari erano all’epoca giovani benestanti urbani
abbigliati rigorosamente con autentico e costoso vestiario griffato. Uno degli
indumenti che portavano come status symbol è il piumino Moncler,
acronimo della località francese Monestier de Clermont dove nel 1952 l’omonima
impresa produttrice fu fondata dall’artigiano d’attrezzature da montagna René
Ramillon. In origine fabbricava solo sacchi a pelo e tende, mentre i primi
giacconi imbottiti vennero realizzati come abiti da lavoro per i propri operai
nel 1954. L’alpinista Lionel Terray li notò proponendone una speciale linea per
le scalate e nello stesso anno il piumino equipaggiò la spedizione di Lino
Lacedelli ed Achille Compagnoni con la conquista della vetta del K2 scalando
gli 8.609 metri
della seconda montagna più alta del Pianeta.
Dal 1992 Moncler è italiana con quartier generale a
Trebaseleghe in provincia di Padova, dal 2013 è quotata alla Borsa di Milano e
oggi produce per l’80% il tradizionale capospalla e per il 20% maglieria,
calzature e accessori, con articoli di lusso che costano fino a 1000 euro,
distribuendoli in 260 boutique, di cui 200 a gestione diretta, in 70 Paesi fra Europa,
America e Asia.
La fabbricazione è delocalizzata in Romania e per anni è
stata affidata ad Antonello Gamba. Lui è un imprenditore bergamasco che nel
1987 prese “ago e filo” per trasferirsi in territorio romeno, fondando le
imprese Wear Company e Sonoma, con l’apertura di un opificio tessile di 33.000 metri quadri a
Bacǎu. Dava lavoro a 5mila persone, pagandoli l’80% in meno rispetto a uno
stipendio medio italiano. «Sino a fine anni Novanta è stata una pacchia» diceva
Gamba ai giornalisti che lo intervistavano, ma poi i romeni, stanchi della
miseria dei salari, presero “armi e bagagli” per emigrare alla ricerca di una
vita migliore nel ricco Ovest.
Il Gamba restò a corto di manodopera ed ebbe l’idea di
importarla. Nel 2006 fece arrivare dalla Cina 400 operai, con contratti
biennali o triennali legati al permesso di soggiorno, per lavorare dalle 40
alle 60 ore settimanali; unico giorno di riposo la domenica. La paga mensile
era di 350 euro, a cui erano sottratti oltre 100 euro per vitto e alloggio
dentro la fabbrica: cibo scarso e fatiscenti dormitori con letti a castello di
tre piani.
I cinesi non resistettero a lungo e nel 2007 scioperarono,
reclamando paghe più alte e migliori condizioni di lavoro e di vita: non
ottennero nulla e molti di essi tornarono in Cina. Quelli che restarono
continuarono a essere sfruttati, compresi circa 500 operai giunti dal
Bangladesh nel 2008. Nel medesimo anno uno dei lavoratori cinesi andò nel
centro di Bacǎu con addosso un cartello per attirare l’attenzione sul fatto che
stava per scadergli il contratto e l’azienda non lo aveva pagato, trovandosi
senza denaro per tornare a casa: «Niente soldi, niente Cina, niente domani».
Gli asiatici dovettero pure indebitarsi con le agenzie interinali o mezzani dei
Paesi d’origine che li selezionavano per il lavoro e a cui pagarono una tassa
di intermediazione dai 2.000 ai 3.500 dollari, ricorrendo ai prestiti bancari e
ipotecando le abitazioni di famiglia.
Le cose non andavano bene nemmeno per i romeni che in quegli
anni – nei commenti a un articolo di cronaca sulla fabbrica nel giornale online
«Observator de Bacǎu» – lamentavano anonimamente: «non consiglio a nessuno di
lavorare in Sonoma», «lo stabilimento sembra una prigione», «se vai in bagno
più di due volte in quattro ore, vieni ammonito», «talvolta siamo morti di sete
sino alla fine del turno», «gli straordinari non sono pagati».
Dopo avere raggiunto un giro d’affari dagli 11 ai 14 milioni
di euro e utili di oltre 250.000 euro all’anno, la Sonoma di Gamba consegue
nel 2014 per la prima volta una perdita di 770.000 euro, nel 2015 è insolvente
e fallisce.
Nel 2016 Moncler rileva in affitto l’opificio perché “The
low-cost production must go on”, vale a dire che anche nelle difficoltà la
macchina dei profitti non può fermarsi, per poi acquistarlo nel luglio 2018
divenendone proprietaria. Vi lavorano circa 900 operai, di cui 300 provenienti
dalla fabbrica tessile Dialma a Sărata nel distretto di Bacǎu, a cui Moncler
commissionava la produzione: nel 2015 la comprò, per poi chiuderla al fine di
accorpare le attività in un’unica struttura nell’ambito del potenziamento della
capacità produttiva diretta in un Paese definito come “l’eccellenza della
piuma” con un programma di investimenti per 5 milioni di euro, prendendo aiuti
pubblici dallo Stato romeno (oltre 3,5 milioni di euro) e usufruendo di una
vantaggiosa legislazione del lavoro con salari minimi di 400 euro lordi e 250
euro netti mensili corrispondenti a 2,45 euro/ora: la retribuzione più bassa
d’Europa.
Giuseppe Iorio – autore del saggio-reportage Made in
Italy? Il lato oscuro della moda, edito nel maggio 2018 da Castelvecchi –
ha un’esperienza trentennale da responsabile-tecnico della produzione per i più
importanti marchi della moda di lusso ed è colui che nel 2014 contattò la trasmissione
televisiva d’inchiesta «Report» portandola fino in Transnistria per svelare
cosa c’è dietro l’industria tessile che per fare i miliardi tratta i lavoranti
quasi ai limiti dello schiavismo.
Nel libro scrive che, quando ha collaborato per 4 anni con Moncler,
andava spesso a Bacǎu e ha conosciuto Antonello Gamba: «Di lui colpisce
soprattutto lo sguardo freddo, tagliente. Un uomo sicuro di sé, con un
carattere deciso, determinato, totalmente votato alla religione del denaro,
disposto a tutto per guadagnarne. […] Prima rileva dei grossi capannoni
industriali da una vecchia fabbrica di non so che e all’interno ci mette le
“catene di produzione” cioè le linee di confezionamento dalle quali esce il
prodotto finito. […] In mezzo a queste “catene” di produzione si muoveva
instancabile una direttrice di reparto che credo fosse di Bergamo. Passi rapidi
e dito sempre puntato a riprendere, a correggere, a spronare. Una furia. […]
Gli operai di Sonoma – racconta ancora Giuseppe Iorio – e ormai sarebbe meglio
chiamarli con il nome giusto, schiavi, devono essere efficienti al massimo
delle loro possibilità perché non sono ammessi ritardi per la consegna delle
commesse. […] La fabbrica “criminale” di cui vi ho parlato, la Sonoma , c’è, esiste. Anche
se recentemente e come ciclicamente accade… è fallita. Fallisce ogni due o tre
anni a quanto mi dicono. E sapete qual è il motivo per cui la Sonoma-Sodoma
fallisce? Il basso costo della produzione. Gli stilisti o chi per loro
abbassano sempre più il prezzo delle commesse e lui, l’imprenditore, accetta.
Si barcamena. Fa venire centinaia di “lavoratori” dall’Estremo Oriente. Li
sfrutta su scala industriale. Fa lo schiavista e poi fallisce».
Adesso lo stabilimento di Bacǎu è condotto da Moncler che
probabilmente sapeva dei metodi scorretti di gestione del lavoro adottati in
Sonoma in quanto come riporta – alla sezione “Profilo della filiera di
fornitura” – nel proprio sito internet: «L’intero processo di confezionamento è
attentamente monitorato dai tecnici Moncler che ne verificano l’allineamento
con gli standard richiesti attraverso una metodologia rigorosa e verifiche
settimanali sul campo». Seguendo i valori aziendali interni di “Responsabilità”
e “Rispetto”, manifesta l’impegno a implementare iniziative specifiche per
promuovere il benessere dei dipendenti in Romania, ma penso che prima dovrebbe
attuare provvedimenti di “degambanizzazione” dei “kapo” reparti come Marian
Bodron, che per parecchi anni ha lavorato nel ruolo di controllore e direttore
di produzione per il Gamba, e dal suo profilo su Linkedin (portale web di
relazioni professionali) si apprende che è rimasto nella fabbrica di Bacǎu
svolgendo l’identica mansione per Moncler.
Dal 2013 al 2017 l’azienda del piumino di lusso ha
raddoppiato il fatturato da 580 milioni a 1,19 miliardi di euro, con il
contestuale incremento dei profitti (da 92 milioni a 249 milioni) e anche dei
dividendi azionari, da 25 milioni a 70,7 milioni.
L’alta redditività – determinata dall’abbattimento dei costi
di produzione, senza che il reale fabbricatore del prodotto, cioè il
lavoratore, riceva neppure un cinquantino di aumento salariale – porta un
mucchio di soldi ai proprietari dell’azienda.
Ma chi sono e come usano questo denaro che straguadagnano?
L’azionista di riferimento è Remo Ruffini con una quota di
maggioranza relativa del 26,75%. Di origine comasca, inizia la carriera
imprenditoriale della moda negli Stati Uniti nell’azienda di famiglia. In
seguito rientra in Italia realizzando diversi marchi di abbigliamento, nel 1999
ricopre l’incarico di direttore creativo di Moncler e dopo qualche anno ne
diviene socio. Ha una ricchezza personale stimata sui 2 miliardi di dollari.
Indossa esclusivamente pullover di cashmere scozzese di marca William Lockie.
Vive sul lago di Como nella magnifica Villa Palatina che sembra un museo
storico con pavimenti in marmo, sculture, dipinti, lampadari lussuosi e un
cortile verde con piscina da sogno. Trascorre i weekend o le vacanze natalizie
nello chalet a St. Moritz in Svizzera fra mille accessori d’arredo, dagli
oggetti in corno e teste di alce alle grandi fotografie alle pareti del
fotoreporter umanista brasiliano Sebastião Salgado. Per un aperitivo o per
rilassarsi bazzica nello storico Badrutt’s Palace Hotel con annesso centro
benessere. Naviga con lo yacht di proprietà Atlante (circa 55 metri ) battente
bandiera britannica – valore 35 milioni di dollari – che somiglia a una cupa
corazzata austro-ungarica: nell’aprile 2017 la vidi “sfigurare” il paesaggio
della bella Portofino.
Altro principale azionista è il fondo di investimento
Eurazeo con il 4,77%, mentre le restanti azioni flottano sul mercato fra
investitori minori. Dietro il fondo vi sono le dinastie Decaux e David-Weill.
La prima è del francese Jean-Claude Decaux che, deceduto nel 2016, è stato “l’anima
del consumismo” con l’invenzione della pubblicità esterna in ogni luogo, dalle
stazioni ferroviarie o metropolitane alle fiancate o fermate degli autobus,
dalle hall degli aeroporti alle colonnine degli orologi pubblici, fino ai
rivestimenti di tela per impacchettare i palazzi in ristrutturazione. La
famiglia ha un patrimonio personale stimato in 4-6 miliardi di euro. Mantiene,
nelle vicinanze di Parigi, una sfarzosa residenza tra boschi e laghetti a
Plaisir e un sontuoso appartamento a Neuilly-sur-Seine con maggiordomo che nel
preparare le serate mondane telefona agli ospiti per conoscere i loro gusti
culinari. Possiede un paio di jet privati di tipo Cessna, registrati a
tassazione agevolata in Lussemburgo, per viaggiare nel mondo. Il maggiore dei
figli, Jean-François, è un fan del polo, capitanando la squadra di
proprietà La Bamba
de Areco, che prende il nome da un’estensione terriera di 150 ettari che ha
acquistato nel 2009 costruendoci un resort campestre ultrachic. L’altro figlio,
Jean-Charles, è appassionato di regate e ha una Wally di 24 metri , il top delle
barche a vela, di nome J One e acquistata per 7 milioni di
euro, con cui ha vinto alcune gare.
La seconda dinastia discende dall’ottocentesco banchiere
ebraico francese Alexandre Weill, uno dei fondatori della banca d’affari
Lazard. Durante l’occupazione nazista della Francia nel 1940, la famiglia si
vide confiscare 2.687 opere d’arte che furono caricate, insieme ad altri 19.216
pezzi razziati, su 30 vagoni ferroviari per destinarli al progetto del Museo
del Führer a Linz in Austria. La quarta generazione è rappresentata
dall’aristocratico finanziario Michel David-Weill, padre di quattro ragazze. La
terzogenita Béatrice sposò Edouard Stern: rampollo di un’antichissima stirpe di
banchieri francesi, con un carattere dispotico ed eccentrico, nonchè gran
mangione (a cena ingeriva fino a 70 bocconi di sushi); nel 1992 entra in Lazard
come potenziale successore del suocero, con cui ebbe però duri scontri e venne
silurato, per poi divorziare nel 1998 e fondare un proprio fondo di
investimento. Il 28 febbraio 2005 Stern fu trovato morto nell’appartamento di
Ginevra con il corpo crivellato di proiettili, mentre era sul letto in un
completo sadomaso di lattice, e per l’omicidio venne arrestata l’amante
prostituta Cécile Brossard. I David-Weill detengono una ricchezza personale
stimata in 2-3 miliardi di dollari. Hanno una villa nella località francese di
Cap d’Antibes, con arredi di design dell’artista Sol LeWitt e banchetti con
piatti creati da Picasso.
Saputo ciò i lavoratori di Bacǎu – e non solo – possono
piangere per la vita dura e “consolarsi” rammentando il concittadino poeta
George Bacovia che nel 1926 decantava La serenata dell’operaio: «Io
per voi sono un mostro / Perché un desiderio covo di tempi nuovi / Per me nel
mondo vostro non c’è posto… / Ma mi leverò in piedi presto. / Oh, dormi bene,
sempre così / In sogni dolci, orrido borghese / Sospirando, i palazzi che ti
innalzo / So bene anche distruggerli. / In questa notte, ecco, risuona / Una
rozza serenata / Agli amanti persi sotto la luna / Poeti dall’amore putrido. /
Oh, dormi nella notte infinita / Borghese dall’aria trionfale / Ma preistorico
animale / Per la ragione dorata / Non si piange sotto la bionda luna / Ma si
placano le vendette / Ai martiri bagnati di sangue / Canto l’ultima serenata. /
Oh, dormi… ma salirò verso il sole / In volo sublime di aeroplano… / Con sogni
dolci, borghese tiranno / È la terribile aurora…».