In principio fu esplosione di stelle in collisione con il forgiarsi di una bianca e lucente materia metallica che cadde sulla Terra.
Nel 1901 quel metallo cosmico venne isolato, mediante un processo
di separazione per cristallizzazione, dallo spettroscopista e chimico francese Eugène-Anatole
Demarcay, che ottenne una delle ultime terre rare; gli diede il nome di
“Europio”, in onore del continente europeo, con simbolo Eu e posizione numero
63 della tavola periodica.
Nel frattempo, il Giappone annetteva nel pacifico il piccolo
atollo Minami-Torishima e oltre un secolo dopo, nel 2012, la nave oceanografica
Kairei dell’agenzia pubblica giapponese JAMSTEC individuò, attorno alla costa e
a 5 chilometri
di profondità dell’isolotto, circa 16 milioni di tonnellate di minerali rari tra
cui l’europio con un potenziale di estrazione per 620 anni. E se non bastasse, il
telescopio nipponico Subaru ha di recente visto una cospicua giacenza del medesimo metallo sull’astro
J1124+4535 nella costellazione dell’Orsa Maggiore.
A livello mondiale è stimato che,
a fronte di riserve di 150.000 tonnellate, la produzione di europio è di 100
tonnellate annue, per un prezzo che oscilla dai 100 ai 500 dollari al
chilogrammo, con un giro di affari di 209 milioni di dollari nel 2016 e una
previsione di quasi 310 milioni per il 2025.
Come tutte le terre rare, è sempre più richiesto per la
fabbricazione di elettronica di consumo – dal 1965 è usato per il fosforo rosso
nei televisori – ma grazie alla peculiarità della luminescenza è anche adatto
per misure di anticontraffazione nella filigrana delle valute cartacee.
Nel 2002, con l’entrata in circolazione dell’Euro, i chimici
olandesi Freek Sujver e Andries Meijerink dell’Università di Utrecht esaminarono
le banconote in luce ultravioletta, rilevando degli inchiostri a base di
europio: verde nella mappa dell’Europa, giallo o rosso nel serto stellato, blu
per i monumenti. E in assenza di uno dei colori, il denaro è falso.
Dalla nascita dell’Euro ad oggi, sono stati ritirati 11
milioni di biglietti fasulli, soprattutto nei tagli da 20 e 50, pari soltanto
allo 0,01% delle banconote vere coniate ed immesse sul mercato che ammontano in
107,4 miliardi di pezzi per un valore complessivo di 3,9 bilioni.
La quantità di Euro da produrre è decisa dalla Banca
Centrale Europea, mentre l’emissione è demandata alle banche centrali nazionali
con stamperie pubbliche o avvalendosi di tipografie private, tra cui la De La Rue quotata alla Borsa
di Londra. Ad esempio, in Italia l’intero ciclo di creazione della cartamoneta
è fatto direttamente dalla Banca d’Italia nel proprio stabilimento di Roma Via
Tuscolana 146, dotato di macchinari di stampa e taglio. Le materie prime, che
comprendono carta filigranata, inchiostri ed elementi
di sicurezza, sono acquistati all’esterno e uno dei fornitori storici è la
cartiera francese Europafi della Banque De France. Negli ultimi mesi è
stata però attivata la
Valoridicarta Spa, di proprietà dell’Istituto Poligrafico e
Zecca dello Stato, insieme alla stessa Banca d’Italia, a cui la nuova società
fornirà carta e sistemi di sicurezza anticontraffazione realizzati nello
stabilimento di Foggia.
Per gli approvvigionamenti di europio, i principali attori globali
sono le imprese statali Baotou Iron & Steel (Cina) e Indian Rare Earth (India),
nonché le quotate Arafura Resources, Hastings Technology e Lynas (Australia), Rare
Element Resources (Stati Uniti), Great Western Minerals, Canada Rare Earth,
Avalon Advanced Materials e Neo Performance Materials (Canada), nelle quali i
primari azionisti sono fondi di investimento, speculatori e commodity traders.
L’europio abbonda nell’area asiatica con una posizione
predominante della Cina, dove sono concentrate le maggiori riserve di terre
rare. Uno dei più grandi giacimenti al mondo è nella Mongolia cinese in
località Bayan Obo del distretto di Baotou per un circondario di oltre 2
milioni di abitanti. La zona è disseminata da impianti di estrazione e
raffinerie, che per ogni tonnellata di concentrato di terre rare in
lavorazione, generano 10.000
metri cubi di gas di scarico e 75 metri cubi di
acque reflue acide, con un mix di rifiuti tossici, perfino radioattivi, gettati
in prevalenza nel vicino lago artificiale della diga Weikuang, inquinando l’ambiente
circostante.
A Bayan Obo la miniera venne aperta nel 1958 e all’epoca era un luogo di comunità agricole dedite alla policoltura di pomodori, melanzane, cavoli, angurie e altre piante, con pascoli o allevamenti di pecore, capre, mucche, galline, maiali e cavalli. Dal 1990 il boom della domanda di terre rare, da parte dell’Occidente per supportare uno smisurato sviluppo tecnologico nella società dei consumi, distrusse il territorio naturale: perdita dei raccolti, senza attecchire nulla; morte degli animali; gravi malattie tra la popolazione, dal diabete all’osteoporosi e dall’ictus ai tumori.
Nel 2001 e nel 2006, il centro minerario fu osservato dal radiometro ASTER ad alta risoluzione della NASA, riscontrandone un allargamento rispetto al passato con più ampie zone di nero per le rocce, marrone scuro per le praterie, rosso fosforescente per la vegetazione e verdastro per l’acqua, ma non sono i colori dell’europio, come nei soldi e TV, è l’effetto di un disastro ecologico.